Interviste
Il futuro dell'Europa
E tu, ti senti europeo?
Da Lisbona a Bucarest, non basta una bandiera a 12 stelle a farci sentire uniti. La lettura di Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Genova
Laura Santi Amantini | 22 ottobre 2014
VALORIZZARE LE DIFFERENZE
L’Europa è, innanzi tutto, un concetto geografico: attualmente, dal punto di vista antropologico, è un’entità scarsamente rilevabile. È difficile individuare, negli abitanti dei diversi Paesi che la compongono, una reale consapevolezza di essere europei, anche se ci sono dei tratti culturali che li accomunano, magari proprio quei tratti di cui si parla poco. Certo, le differenze tra le varie culture sono sostanziali: un appiattimento sarebbe terribile ma, credo, anche impossibile. Bisogna far dialogare queste differenze e coglierne il meglio possibile.

L’IDENTITÀ NON SI COSTRUISCE IN UN GIORNO
Si può creare, allora, un’identità europea? Io credo che non solo sia realizzabile ma anche auspicabile. Oggi parliamo di identità nazionali come se fossero un dato naturale; in realtà, esse sono frutto di un processo di costruzione storica e, così come si sono costruiti i nazionalismi, si può costruire un europeismo. A mio parere, è possibile arrivare ad una situazione in cui, quando qualcuno vi domanderà “Da dove vieni?”, non
risponderete “Sono italiano” o “Sono francese”, ma “Sono europeo”. Naturalmente, ci vorrà tempo, intere generazioni e, soprattutto, è necessaria la volontà politica di realizzare questo processo, non basandosi sui
dati economici, bensì su altri fattori più strutturali.

L’INGOMBRANZA DEGLI INTERESSI ECONOMICI
Vediamo da decenni come le politiche economiche siano attuate a discapito dell’ambiente e degli interessi di coloro che abitano un dato territorio. È un grave problema: se l’Europa si fonda solo su un’idea utilitaristica, allora è destinata a scatenare ancor più conflitti interni. L’obiettivo che l’Unione Europea dovrebbe realizzare è esattamente l’opposto: facilitare la pace. Infatti, meno confini significano meno occasioni di conflitto. Più ci si accomuna all’interno di gruppi più grandi, più si diradano i pretesti per fare guerre e scatenare violenze. Ma c’è ancora molto da fare per raggiungere questo traguardo.

IN ITALIA NON SI PARLA EUROPEO
Giovani e meno giovani, purtroppo, sentiamo ancora l’Europa come distante. In Italia questo accade forse più che altrove, perché siamo affetti da un provincialismo fortissimo: basti pensare all’attenzione riservata dai nostri media alle “beghe” interne e quanto poco sia, invece, lo spazio che quegli stessi media dedicano a ciò che succede all’estero. Ma non solo: non può che farci riflettere il fatto che spesso i partiti scelgano di mandare in Europa coloro che sono stati “silurati” o quelli che si vogliono allontanare dalla scena nazionale,
in un momento in cui le decisioni importanti si prendono nelle istituzioni dell’Unione ed è lì che bisognerebbe
inviare i migliori. Le ultime elezioni sono state un’occasione per osservare anche la percezione della politica in generale. Per quanto riguarda il nostro Paese, mi sembra che la partitocrazia tradizionale sia fortemente in crisi, basti vedere il successo che hanno avuto ultimamente il Movimento Cinque Stelle e, soprattutto, l’astensionismo, che è un partito altrettanto forte. È innegabile che stia dilagando un sentimento di sfiducia generalizzata nei confronti della classe politica, molto più forte che in passato.

IL DEFICIT DEMOCRATICO
Credo che uno dei problemi chiave sia la difficile situazione in cui si trova la democrazia. Dobbiamo fare i conti con il fatto che la democrazia rappresentativa, così com’è, ha fatto ormai il suo percorso: è stata fondamentale, ma oggi non rispecchia più le aspettative delle comunità locali. Forse bisogna ritornare a pensare ad un modello basato sulle comunità, e non su una delega come oggi. Tornare al locale pensando al globale? Forse sì: quel che conta è che non si tratti di un localismo chiuso in sé stesso, altrimenti si sfocia nel tribalismo. Il problema della rappresentatività, del peso della comunità rispetto allo Stato è cruciale, anche nella formazione dell’identità europea. La parola che riassume meglio la mia visione dell’Europa è “convivenza”: convivenza che non vuol dire solo “stare vicini” ma condividere un territorio, un modello, pur rispettando la differenza dell’altro. Convivenza non significa omologazione, assimilazione, ma “vivere con”.
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