Arte
Gerda Taro, la prima reporter di guerra
Dietro alla "compagna di Robert Capa" c'era molto di più
Virginia Padovani | 28 gennaio 2019

Willy aveva sperato che il tram non ripartisse prima che lui potesse vedere in viso quella donna di un’eleganza irreale, cinematografica. Ma lei si era messa in moto con un passo che sembrava irriderlo. […] Il dottor Chardack non avrebbe ricordato per il resto della vita quella donna vista dal tram, se quella donna non fosse stata Gerda. E se non avesse intuito, magari non a sedici anni ma a diciotto, che erano correlati il suo fascino e la capacità frustrante di sfuggirgli, e non a lui soltanto”.

Ecco la perfetta descrizione della signorina Gerda Pohorylle, forse più conosciuta come Gerda Taro. È difficile ricreare il ritratto di una donna così coraggiosa, in grado di spiazzare chiunque le si trovasse davanti con le sue maniere raffinate ma sempre accompagnate da un’altisonante spontaneità. Eclettica, sfuggente, passionale, la definirebbero alcuni. La verità è che la signorina Pohorylle era speciale: d’altronde, che altro si potrebbe dire di una donna fotografa morta sul campo durante la guerra civile spagnola?

Per riuscire a inquadrare meglio il personaggio che il libro vincitore del Premio Strega 2018 è riuscito egregiamente a ricreare bisognerebbe partire da prima: la “ragazza con la Leica” fu, prima di diventare una fotografa conosciuta a livello internazionale, Gerda Pohorylle.

Tale signorina Pohorylle nacque in Germania, esattamente a Stoccarda, da una famiglia ebrea: questo dettaglio le causò non pochi problemi con l’ascesa del nazismo. Fu infatti arrestata in quanto membro attivo del Partito Comunista tedesco e appena uscita dal carcere scappò a Parigi con un amico. Nella capitale francese tentò di laurearsi e lavorò come dattilografa. Fin qua, potrebbe sembrare la stessa storia di diverse ragazze scappate dalla persecuzione nazista. A differenza loro, la signorina Pohorylle conobbe l’emergente fotografo ungherese Erne Friedmann. Probabilmente questo nome non vi sarà familiare: piuttosto, potrebbe sembrarvi più conosciuto l’appellativo Robert Capa.

Quest’ultimo è stato una geniale invenzione della signorina Pohorylle (o dovrei ormai dire Taro?) che portò loro parecchi ingaggi e altrettanti soldi. Robert Capa si presentava come un fotografo americano giunto da oltreoceano per fotografare Parigi e il vecchio continente. Questa allure esotica che la storia inventata da Gerda possedeva fu fondamentale per alimentare la loro notorietà, anche se principalmente aumentò la fama di Capa stesso.

La signorina Gerda Taro fu più che altro conosciuta come “la compagna di Capa”, anch’essa fotografa ma più che altro vista come un accessorio di Friedmann. È stato così fino agli anni ‘90, quando venne riscoperta la figura della ragazza come eroina antifascista e donna controcorrente, anche in qualità di prima reporter donna morta sul campo per il suo lavoro e i suoi ideali.

Tra le linee della Resistenza tutti amavano Gerda Taro. Soldati e soldatesse, che spesso venivano da lei esortati a combattere, nutrivano un gran rispetto per lei e probabilmente provavano anche soggezione di fronte a tanta bellezza. E c’era qualcuno che tra quelle linee di sicuro l’amava più di chiunque altro: Robert Capa, che non si riprese più dallo shock per la morte della ragazza con la Leica – la sua, che aveva affidato a Gerda e che Gerda stessa si preoccupò di controllare, come prima cosa, dopo l’incidente che stava per portarla alla morte.

Capa continuò a fare il fotografo di guerra in giro per il mondo, portandosi nel taschino il ricordo della sua preziosa Gerda, finché non trovò anche lui la morte negli scontri in Indocina.

Oltre a tutte le storie che si possono leggere in giro su questa coppia fenomenale, non c’è niente di più incisivo per descrivere l’essenza di un fotografo che i suoi scatti. La signorina Taro è sempre stata dotata di un buon senso estetico e nei suoi scatti è forte la ricerca dell’umanità. Ed è così che su un fronte di guerra, con sguardo attento cercava di scorgere i piccoli gesti rivoluzionari, che fossero essi spontanee dimostrazioni d’affetto – come per la foto dei due miliziani innamorati – o la resistenza antifascista che si manifesta tramite messaggi su un muro spagnolo.

La vita di Gerda dimostra che non era semplicemente dedita all’arte ma si è sacrificata per una nobile missione: cercare di imprimere la realtà della guerra sui rullini.

La morte di Gerda e di Robert è descritta in Taro, canzone della band inglese Alt-J e che termina con la speranza che si possano essere ritrovati in un’altra vita: “Le photographe est mort; 3.1415, alive no longer my amour”.

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